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Parasha Ve-etchannan

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view post Posted on 18/8/2016, 19:03
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(Deuteronomio 3,23 - 7,11) Dopo un breve cenno di profondo rammarico per il fatto che non gli è concesso di entrare nella Terra promessa, Mosè invita il popolo a essere fedele a Dio che ha compiuto per lui miracoli e prodigi, e di seguire le sue leggi senza nulla cambiare. Esse dovranno essere insegnate di generazione in generazione: solo la loro stretta osservanza e l'ininterrotto amore verso Dio permetteranno al popolo di sopravvivere. Quando sarà stabilito nella sua Terra, il popolo dovrà distruggere tutto ciò che è collegato con l'idolatria perché il Signore lo ha scelto e consacrato a sé, benché assai meno numeroso degli altri popoli, perché rimanesse fedele al patto stretto con i patriarchi.



Grande deve essere stato il rammarico di Mosè nel non poter entrare nella Terra a fianco del popolo che aveva accompagnato e assistito così amorosamente e per così lungo tempo. Ma accenna solo assai brevemente alla propria delusione, al proprio dolore, né muove alcun rimprovero al popolo, a causa del cui comportamento perde il diritto di entrare nella Terra promessa; si limita a dire: “In quel medesimo tempo io supplicai il Signore... `Deh! Lascia che io passi e veda il bel paese che si stende oltre il Giordano e la bella contrada montuosa, e il Libano'. Ma il Signore si adirò con me per cagion vostra, e non mi esaudì...” (3,23-26).
La sua principale preoccupazione, anche in quel momento, è quella di ricordare al popolo i doveri che lo attendono nel nuovo paese: “Ora, dunque, Israele, da' ascolto alle leggi e alle prescrizioni che io vi insegno perché le mettiate in pratica...” (4,1). E aggiunge subito dopo: “Non aggiungerete nulla a ciò che vi comando, e non toglierete nulla, ma osserverete i precetti del Signore” (4,2).
Gli ebrei, ieri come oggi, avrebbero dovuto dare, come dice lo Hirsch, il senso della vita alla Legge, e il senso della Legge alla vita. Ed è questo l'ultimo insegnamento che Mosè impartisce al popolo, nel momento in cui sta per morire, circondato dal dolore immenso, dal rimpianto e dalla benedizione del suo popolo. Un popolo “dalla dura cervice”, che lo ha così spesso tradito, prima con la costruzione del vitello d'oro, poi con il timore e il rifiuto di andare a conquistare la terra all'epoca dei dodici esploratori, e ancora con la rivolta di Korach; ma che non lo ha mai abbandonato e lo ha seguito nel deserto per quaranta lunghi anni in cui, come dice lo stesso Mosè: “Il tuo vestito non ti si è logorato addosso, il tuo piede non si è gonfiato...” (8,4).
E così egli rivolge ancora una volta la sua parola affettuosa ed energica al popolo; gli infonde fiducia, gli instilla un sentimento e un ideale che lo accompagneranno per sempre, nonostante gli inevitabili cedimenti e trasgressioni, perché per merito della eterna e immutabile legge che li guida, gli ebrei son divenuti a loro volta indistruttibili e eterni, malgrado l'esilio e le persecuzioni; presenza inestinguibile di un ideale immortale che nessuna mano sacrilega potrà mai distruggere.
Una legge che li anima in ogni momento della loro vita, li assiste e li protegge richiamandoli continuamente al ricordo e alla testimonianza.
È quanto ci dice lo Shemà', il cui primo brano troviamo proprio nella nostra Parashà (6,4-9), che al termine della sua prima parola “Shemà'» appunto, ha una “ain”, e al termine dell'ultima parola della prima frase, “echad”, ha una “daleth”, lettere che insieme formano la parola “ed”, testimone.
Una testimonianza da offrire al proprio popolo, una testimonianza per l'intera umanità.
Lo Shemà', che costituisce la dichiarazione di fede che accompagna l'ebreo dal momento in cui comincia a balbettare le sue prime parole fino all'attimo in cui sta per ricongiungersi al Creatore; lo Shemà', ripetuto dai nostri martiri prima di esalare l'ultimo respiro a testimonianza della loro incrollabile fede nell'ideale ebraico, non è una preghiera rivolta al Signore: è l'appello rivolto al popolo: “Ascolta Israele”, perché è il popolo che deve tener fede all'impegno e alla Legge in ogni momento, in ogni situazione, per essere fedele a Dio.
Alla Legge, secondo le parole dello stesso Mosè, non doveva essere né aggiunto, né tolto nulla, perché, essendo stata data da Dio, non poteva essere che perfetta e valida in ogni tempo: e che ciò sia vero ce lo dimostra il fatto che dopo tremila anni durante i quali sono avvenuti immensi cambiamenti storici e tecnologici, è ancora perfettamente valida e applicabile.
Ma la strada della sua esecuzione non permette né deviazioni né approssimazioni: non può essere applicata parzialmente, o secondo una propria scelta indiscriminata; né può rimanere ancorata a una società e a un modello di vita che non esiste più: essa deve essere applicata nella sua interezza, ma nel modo migliore e sempre adeguata ai tempi. Ecco perché è stata accuratamente studiata, commentata, interpretata dai nostri Saggi e dai nostri Maestri di tutti i tempi.
Israele è l'unico popolo che ha ricevuto la “legge” prima ancora di aver ottenuto uno Stato in cui metterla in pratica.
La “legge” è in genere il risultato di una situazione: si forma, si sviluppa e prende corpo in un paese a seconda della maturità del popolo che vi dimora, delle sue necessità, del suo sviluppo culturale, civile e sociale.
La Torà, invece, non nasce attraverso l'esperienza e la maturazione del popolo ebraico; è il popolo, al contrario, che nasce per accettare e diffondere la legge. Una legge che è stata spiegata e insegnata da un uomo che è sepolto nel deserto e che nel paese in cui avrebbe dovuto essere messa in pratica non ha mai messo piede, ma che, seppur non materialmente, proprio per merito del suo insegnamento è entrato idealmente nel paese insieme a tutto il popolo, lo ha accompagnato con i suoi consigli, con i suoi suggerimenti durante lo stanziamento nella terra di Israele, e poi lo ha accompagnato nella diaspora senza mai abbandonarlo, chinandosi ancora su di lui con il suo appoggio e il suo conforto.
Attraverso Mosè, l'Eterno ha dato al Suo popolo una Legge che riconosce l'eguaglianza di ogni uomo dinanzi a Dio, che respinge ogni privilegio e ogni distinzione di casta, che trasforma ogni ebreo in un Sacerdote evitandogli il peso di una categoria sacerdotale che si frapponga fra lui e Dio rendendo la religione una burocrazia che, come tale, è esposta alla corruzione e all'avidità di potere.
È una Legge che eleva l'obbligo di insegnare ai giovani a comandamento di Dio.
Per il popolo ebraico la cultura, l'insegnamento ai giovani, diviene fattore primario: “E le insegnerai ai tuoi figli stando in casa e andando per la via”, recitiamo nello Shemà' ogni giorno, due volte al giorno.
E l'insegnamento si rinnova in ogni occasione, in ogni festa. A Pesach, durante il Seder, ripetiamo: “Quando in futuro tuo figlio ti domanderà: `Che cosa significano queste istruzioni, queste leggi e queste prescrizioni che il Signore Dio nostro vi ha date?' tu risponderai a tuo figlio: `Fummo schiavi in Egitto... e il Signore ci trasse di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri... e ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi...'» (6,20-24).
Noi ebrei non possiamo permetterci di essere ignoranti.
È l'ignoranza che porta all'apostasia e all'idolatria, di qualunque tipo di idolatria si tratti, come abbiamo più volte ribadito.
Israele non è popolo di guerra, e neppure di commercio e d'industria. È popolo di cultura: la sua missione è lo studio e l'insegnamento del Libro; è questo il compito che Dio gli ha affidato nonostante fosse un popolo meno numeroso degli altri. E la diffusione e l'insegnamento sono sempre più possibili attraverso i mezzi che il progresso della scienza mette a nostra disposizione ogni giorno in misura maggiore.
In questa Parashà Mosè ripete il Decalogo; lo ripete in particolare a coloro che all'epoca della Rivelazione sinaitica non erano ancora nati o erano in tenera età.
Vengono rivissuti i momenti magici in cui Dio apparve al popolo sul Sinai, senza alcuna forma concreta, solo attraverso una Voce: quasi a sottolineare la potenza della parola nell'insegnamento.
Fra il testo del Decalogo nell'Esodo e quello nella nostra Parashà vi sono alcune lievi differenze; mi limiterò a citarne una che troviamo nel quarto Comandamento. Nell'Esodo è scritto: “Ricorda il giorno del sabato per santificarlo”; qui: “Osserva il giorno del sabato per santificarlo”.
Il riposo del sabato, ammonisce Mosè, non deve essere soltanto un “ricordo”; deve essere qualcosa di concreto che, attraverso l'osservanza, è testimonianza attiva e santificatrice. Non soltanto Dio viene santificato attraverso il sabato, ma anche l'uomo che di Dio è creatura.
Attraverso la santificazione del giorno dedicato al Signore, l'uomo si distacca in un certo senso dalle leggi biologiche che gli danno una forma e delle funzioni simili a quelle degli animali, per dare alla sua esistenza un valore puramente spirituale.
Attraverso l'osservanza del sabato, e delle feste, l'ebraismo ha costruito, afferma lo Hirsch, un monumento diverso da quello di tutti gli altri popoli. Un monumento che non può essere né demolito, né deteriorato dal passare dei secoli e dall'infuriare degli elementi: il tempo è divenuto il monumento eterno e immutabile dell'ebraismo, e il calendario ne costituisce il simbolo scandendo il ritmo della nostra esistenza attraverso il ritorno periodico dei sabati e delle ricorrenze sacre.
Desideriamo ricordare ancora il secondo Comandamento dove è scritto: “Non vi farete scultura alcuna né immagine alcuna... Non vi prosternerete dinanzi ad esse né presterete loro culto...”.
L'ammirazione per tutto ciò che di bello ha costruito l'uomo non è peccato: la bellezza fa parte dei doni che Dio ha concesso all'uomo, e il creare e ammirare cose belle rallegra gli animi e il cuore.
Già Noè nel benedire i figli esclamò: “Dio benedica Jafet e dimori nelle tende di Sem” (Gen. 9,26); e Jafet è il simbolo della bellezza, Sem quello della spiritualità.
L'interpretazione ebraica di queste parole chiarisce molti dubbi.
La bellezza, l'estetica, che costituiscono parte del contributo dato all'umanità dai Greci e dai Romani, considerati discendenti di Jafet, in se stesse non sono da sfuggire; è indispensabile, tuttavia, che siano complementari all'insegnamento etico-spirituale di Sem, che in Israele ha il suo primo vessillifero.
Ma bisogna rifuggire in modo totale “dal culto degli idoli di pietra e di legno”, che trasformano le opere d'arte, i monumenti di pietra, i gioielli d'oro in oggetti da idolatrare. I nostri monumenti sono costruiti nel cuore, nell'anima, nel rivivere giorno dopo giorno uno “ieri” che non è mai passato, ma che è sempre “oggi” e lo sarà anche “domani” fino al compimento dell'opera.
La presenza di Mosè accanto al popolo si sente, si avverte quasi concretamente ancora oggi, come tremila anni fa.
 
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